MARTEDI’ 30 OTTOBRE 2012
CESARE DEVE MORIRE non è un documentario, e non è neppure teatro adattato per lo schermo: è un puro distillato del cinema e delle tematiche dei due registi, i fratelli Taviani. Segue i laboratori teatrali realizzati dentro il carcere di Rebibbia dal regista Fabio Cavalli, attore e autore teatrale, direttore artistico del “Centro Studi Enrico Maria Salerno”, qui alle prese con una versione del classico shakespeariano interpretato dai detenuti. Sono spacciatori, camorristi, ergastolani, alle prese con un testo che parla di tradimenti, di onori e di rivoluzioni tradite: tutti temi che li coinvolgono da vicino, che ognuno interpreta con la rabbia e l’energia che si porta dentro. Si seguono le loro prove e la messa in scena finale del “Giulio Cesare” di William Shakespeare, ma anche le vite dei detenuti nelle loro celle. [slider title=”Espandi/Comprimi…”]I fratelli Taviani erano certamente consapevoli delle numerose testimonianze, in gran parte documentaristiche, che anche in Italia hanno mostrato, a chi non ha mai messo piede in un carcere, come il teatro rappresenti un strumento principe per il percorso di reinserimento del detenuto. I Taviani scelgono la strada del work in progress utilizzando coraggiosamente uno smagliante bianco e nero. L’originalità della loro ricerca sta nella cifra quasi pirandelliana con la quale cercano la verità nella finzione. Questi uomini, che mettono la loro faccia e anche la loro fedina penale (sovrascritta sullo schermo) in pubblico, si ritrovano, inizialmente in modo inconsapevole, a cercare e infine a trovare se stessi nelle parole del poeta divenute loro più vicine grazie all’uso dell’espressione dialettale. Frasi scritte centinaia di anni fa incidono sul presente e ogni detenuto ‘sente’ e dice le battute come se sgorgassero dal suo intimo. Shakespeare a Rebibbia, interpretato dai detenuti della sezione alta sicurezza: il “Giulio Cesare” sembra scritto per loro, che conoscono la violenza e conoscono il “potere”. Sembra il “punto zero” di molti gangster movies che raccontano l’avvicendamento delle cupole, l’eliminazione di capi scomodi, i tradimenti. Ai fratelli Taviani riesce un miracolo: calare i versi del poema nella quotidianità dei reclusi di Rebibbia, come fossero i loro pensieri, il loro inconscio, la loro vita. Gli attori, tutti con condanne che vanno da 15 anni a fine pena mai, trovano la loro libertà nelle ore dedicate alle prove, per poi scontrarsi con la realtà nel momento in cui il secondino richiude la cella alle loro spalle. “Da quando ho incontrato l’arte, questa cella è diventata una prigione” è la frase emblematica che viene pronunciata da Cosimo Rega, uno dei protagonisti, parole che si incidono nell’anima.[/slider]
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